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La guerra in Afghanistan è finita. I guerriglieri talebani, dopo poche settimane di scontri ed una velocissima avanzata, sono entrati nella capitale Kabul e sulla scrivania del Presidente Ghani, ormai fuggito all’estero, hanno rifondato l’Emirato islamico d’Afghanistan.

Solo un mese fa il Presidente Usa Biden assicurava che i talebani non avrebbero vinto e che non ci sarebbe stata nessuna evacuazione.

I fatti lo hanno smentito. All’aeroporto internazionale della città sono in partenza gli ultimi voli carichi di diplomatici occidentali e collaboratori locali mentre le strade sono intasate dalle auto di afgani intenti a lasciare il Paese.

Ma ripercorriamo la storia recente di questo paese mediorientale che sembra non avere pace.

 

Il cammino dell’Afghanistan verso l’instabilità inizia il 17 luglio del 1973 quando Mohammed Daoud Khan, ex primo ministro, depose suo cugino e Re Mohammed Zahir Shah, la cui casata aveva garantito alla Nazione stabilità e sviluppo per quasi 50 anni.

Khan creò un sistema di potere personalistico e dittatoriale, cercando finanziamenti dall’Unione Sovietica e dagli Stati Uniti. Anch’egli, nel ‘78, venne rovesciato da un colpo di Stato, questa volta dei sovietici, che crearono così la repubblica democratica dell’Afghanistan.

L’anno dopo Breznev decise di inviare l’Armata Rossa per imporre un presidente più vicino alla linea di Mosca. Quello che doveva essere un intervento limitato e breve si trasformerà nel “Vietnam sovietico”, una guerra lunga più di nove anni e che lascerà sul campo circa 26.000 soldati sovietici.

I vincitori del conflitto, i Mujaheddin, si rivelarono presto divisi e litigiosi, favorendo l’affermazione dei protagonisti di queste ore: i Talebani.

I tālebān, ossia “studenti”, interpretano l’Islam in base alla corrente sunnita Deobandi, che enfatizza la solidarietà, l’austerità e la famiglia.

L’ideologia talebana si distingue dall’Islam praticato dai mujaheddin reduci dalla guerra anti-sovietica, essendo costoro maggiormente legati al misticismo sufi di tipo naqshbandi e a un’interpretazione tradizionalista del Corano.

Arriviamo quindi al 2001, anno in cui gli Stati Uniti decidono di intervenire per rovesciare il regime talebano, sfruttando l’onda di indignazione causata delle stragi dell’11 settembre.

L’obiettivo era chiaro: sradicare il fondamentalismo islamico e creare una nazione moderna e democratica, vicina ai canoni occidentali.

 

Oggi, però, vediamo altro. Il bilancio finale parla di 2400 morti statunitensi, 455 inglesi, 158 canadesi, 53 italiani e altri 475 morti tra francesi, tedeschi, polacchi, australiani, spagnoli, rumeni e turchi.

Il mito della democrazia occidentale esportabile ad ogni latitudine del Mondo si scontra contro le liste di donne non sposate stilate dai talebani in queste ore e la bandiera nera sventolante sopra l’ex Palazzo Presidenziale.

Mentre vediamo il personale statunitense chiudere la propria ambasciata e fuggire sul primo volo, ci accorgiamo che poco lontano l’ambasciata cinese lavora a pieno ritmo e senza intoppi, pronta a confrontarsi con il nuovo governo.

L’aquila calva è senza penne, il dragone affonda gli artigli.