Dalla giornata di ieri la sezione dedicata agli esteri dei quotidiani ha ricominciato a trasmettere la notizia di nuove tensioni nella striscia di Gaza tra israeliani e palestinesi.
Questa volta però non sono le solite sigle di Hamas e Fatah le protagoniste di queste ultime escalation di violenze, bensì un gruppo certamente più piccolo e dal seguito popolare, più circoscritto, ma niente affatto irrilevante all’ interno dell’ eterogeneo panorama politico palestinese.
Si tratta del “Movimento per il Jihad islamico in Palestina”, fondato nel 1981 da Fathi Shiqaqi , personaggio tanto radicale quanto criptico. Si ritiene che sia stato lui a introdurre il concetto di martirio (e quindi colpendo il nemico tramite attacchi kamikaze, secondo la dizione in voga presso i giornalisti occidentali) all’interno dell’ ideale di Jihad sunnita. E proprio questo modo di condurre la lotta, che inevitabilmente colpisce anche la popolazione civile, porterà all’accusa di terrorismo da parte di Stati Uniti, Unione Europea, Giappone e Canada.
Shiqaqi morirà nel 1995 a Malta in circostanze alquanto torbide, dopo aver intessuto presunti contatti col dittatore libico Mu’ammar Gheddafi, non si sa se ucciso dal Mossad o da qualche gruppo palestinese rivale.
Alla radice di questi metodi di lotta del Movimento, portati avanti dal suo braccio armato, le Brigate “Al Quds”, letteralmente “La Santa”, nome con cui tradizionalmente i seguaci del Profeta si riferiscono a Gerusalemme, risiede una spiccata radicalità di pensiero: obiettivo del Movimento è infatti la costituzione di uno Stato Islamico all’interno dei confini della Palestina così come concepita prima del 1948. Sono perifrasi più raffinate per indicare che il fine ultimo è la scomparsa dello Stato di Israele dalle cartine geografiche.
Questo spiega anche perché il Movimento si sia sempre rifiutato di partecipare a processi di pacificazione e a negoziati tra le parti in causa. Non stupisce perciò che il portavoce dell’IDF Ran Kochav abbia recentemente dichiarato che, alla luce degli ultimi attacchi, non si stiano svolgendo trattative per cercare un accordo per il cessate-il-fuoco.
In definitiva, al di fuori della spiccata radicalità, è difficile dare una fotografia nitida del Movimento, che nasce ufficialmente come costola della Jihad islamica egiziana, ma che oggi conta su forti legami con il mondo sciita.
Infatti, nonostante le basi operative si trovino a Gaza, Hebron e Jenin, la “sede legale” si trova a Damasco, da molto tempo saldamente in mano, tolta la parentesi della guerra civile, alla famiglia sciita degli Assad.
Inoltre i presunti fondi ricevuti dal Movimento da parte del gruppo militante libanese sciita Hezbollah sarebbero stati motivo di profondi dissapori con Hamas, che sarebbe addirittura giunto a definire il Movimento uno “strumento al servizio di forze esterne”. Anche Fatah ha avanzato l’accusa che il Movimento sia solo lo strumento con cui gli sciiti vorrebbero impadronirsi della causa palestinese.
Nonostante il Jihad Islamico (altro nome con cui è conosciuto il Movimento) sia composto da militanti sunniti è incontrovertibile che abbia ricevuto denaro, addestramento militare, appoggio logistico e assistenza sociale dal mondo sciita.
Da ciò deriverebbe anche la spiccata radicalità sia ideologica che nei metodi di lotta armata contro lo stato della stella di David.
Ecco perché ad oggi il Movimento per il Jihad islamico in Palestina rimane l’unico gruppo a portare avanti la conflittualità militare con Israele: Iran, Siria e Hezbollah rimangono fortemente anti-sionisti e lontani dalle posizioni filo – israeliane assunte dai paesi sunniti del Golfo (ma non solo), Arabia Saudita su tutti.
Enrico Parigi