Skip to main content

È di 14 morti il bilancio dell’assalto alla prigione di Ciudad Juarez, in Messico, al confine con gli Usa. Il penitenziario è stato il teatro di un vero e proprio assalto portato avanti intorno alle 7 del primo dell’anno con tecniche che ricordano quelle usate in passato da formazioni guerrigliere.

I responsabili dell’assalto, secondo i principali media, sarebbero parte di un gruppo di sicari: a bordo di veicoli blindati e dotati di fucili, hanno condotto l’attacco al penitenziario mentre all’interno era in corso una rivolta dei detenuti. La struttura è da tempo soggetta a stress non indifferenti, considerati ad esempio i numeri relativi al sovraffollamento: con una capienza originaria di 700 posti, il “Cereso 3” prima dell’attacco ospitava oltre 3.700 detenuti. Il tutto in una città dove la criminalità è all’ordine del giorno: lo scorso anno a Ciudad Juarez si sono contati ben 1.045 omicidi.

Al termine dei tumulti, una ventina di detenuti sarebbero riusciti ad evadere, mentre nell’attacco hanno perso la vita dieci guardie carcerarie. Secondo le ricostruzioni, si sarebbe trattato di un’azione coordinata per mettere in difficoltà le guardie, probabilmente colte di sorpresa, e favorire la fuga dei complici. Una volta penetrati all’interno del carcere, i criminali hanno generato il panico nella popolazione e le forze di sicurezza sono riuscite a riportare la calma soltanto dopo cinque ore.

Non ancora verificata invece l’identità del gruppo criminale che ha orchestrato e portato a termine l’attacco al carcere: ad agire potrebbero essere stati i membri della gang Los Mexicles, che avrebbero effettuato il raid per liberare il loro capo, Ernesto Alfredo Pinon de la Cruz, alias El Neto, condannato ad una pena di 200 anni per diversi omicidi, sequestri e violenze. Con lui sarebbe scappato il suo “luogotenente” Cesar Munoz, detto El Chilin.

Ad alimentare questa ipotesi c’è la scorreria condotta in agosto proprio dai Los Mexicles, che volevano impedire il trasferimento del boss in un penitenziario federale (dove sono in vigore misure di sicurezza più rigide che avrebbero quindi reso più difficile l’evasione). Di fatto, quindi, si sarebbe trattato di una vera e propria strategia messa in atto nel lungo periodo, che confermerebbe ancora una volta l’elevato grado di organizzazione che governa i gruppi criminali messicani.